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Appalti pubblici: censurata la legge siciliana

22 Febbraio 2021
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Con la sentenza emessa il 26 gennaio 2021 e depositata il 10 febbraio 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, e dell’art. 13 della legge n. 13 del 19 luglio 2019 della Regione Siciliana, cioè la legge regionale sugli appalti pubblici.

 

In particolare, con riferimento agli appalti di lavori, la Regione Sicilia aveva stabilito  l’obbligo per le stazioni appaltanti di utilizzare il criterio del minor prezzo nei casi in cui l’affidamento degli appalti di lavori fosse stato d’importo pari o inferiore alla soglia comunitaria e svolto con procedure ordinarie sulla base del progetto esecutivo.

 

Inoltre, nella stessa legge era prevista una modalità di calcolo della anomalia diversa da quella prevista dal decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) su tutto il territorio nazionale.

 

Invero, rispetto al contenuto delle censure, è da precisare che le previsioni regionali disegnavano solo indirettamente una «soglia di anomalia», attraverso un peculiare meccanismo, per cui la gara doveva essere aggiudicata all’offerta che eguagliava la soglia – calcolata secondo le regole introdotte dalle stesse disposizioni impugnate – o che più vi si avvicinava per difetto.

 

Tanto approfondito, secondo la Corte Costituzionale, la legge regionale ha violato, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che affida al legislatore statale la materia della concorrenza (viene citata la sentenza di questa Corte n. 1 del 2019).

 

Inoltre, poiché a sua volta interverrebbe in materia di procedure, selezione e criteri di aggiudicazione di gare pubbliche, tale legge:

1.       si porrebbe, nel primo caso, in contrasto con quanto previsto dagli artt. 95 e 36, del Codice dei contratti che demanderebbero alle singole stazioni appaltanti l’individuazione del criterio da utilizzare;

2.       stabilirebbe, nel secondo caso, una disciplina diversa da quella contenuta nell’art. 97, commi 2, 2-bis e 2-ter, del d.lgs. n. 50 del 2016 (di seguito: codice dei contratti pubblici).

 

Concludeva quindi la Corte, che la legge regionale “invade la sfera di competenza esclusiva statale in materia di ‘tutela della concorrenza’, adottando previsioni in contrasto con quelle del codice dei contratti pubblici” e, pertanto, dichiarava la sua illegittimità costituzionale.

 

Viene quindi confermato il costante orientamento della Corte Costituzionale, secondo cui  «le disposizioni del codice dei contratti pubblici […] regolanti le procedure di gara sono riconducibili alla materia della tutela della concorrenza, e […] le Regioni, anche ad autonomia speciale, non possono dettare una disciplina da esse difforme (tra le tante, sentenze n. 263 del 2016, n. 36 del 2013, n. 328 del 2011, n. 411 e n. 322 del 2008)» (sentenze nn. 98 e 39 del 2020).

 

Ciò senza distinzioni relative ai contratti sotto soglia (sentenze nn. 98 e 39 del 2020 cit. e n. 263 del 2016, n. 184 del 2011, n. 283 e n. 160 del 2009, n. 401 del 2007).

 

Da notare che, mentre il provvedimento legislativo era stato impugnato per sospetta illegittimità costituzionale, la Regione aveva emanato alcune direttive confermando l’applicazione del calcolo regionale difforme da quello nazionale, in attesa dell’esito del ricorso pendente innanzi alla Corte Costituzionale.

 

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Link esterni

 

·         Corte costituzionale, sentenza 11 febbraio 2021, n. 16

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